Il credo di Margutte
Lo scudiero di Orlando, il gigante Morgante, il personaggio che dà il titolo al poema, erra per tutta la Paganìa alla ricerca del suo signore. Dopo innumerevoli avventure, fa un incontro decisivo: si imbatte a un crocicchio in Margutte, bizzarra figura di gigante malriuscito o mezzo gigante, avventuriero e furfante, carico di ogni vizio e birbanteria, che con sfrontata e al tempo stesso innocente coscienza del proprio essere si presenta ed esprime la sua dissacrante e parodica professione di fede.
Con lui Morgante compirà le più esilaranti e fantasiose avventure del poema.
Parafrasi
XVIII, ott. 112-120
Un giorno Morgante , dopo essere giunto ad un crocevia, all'uscita di una valle in un grande bosco, vide arrivare da lontano, con la coda dell'occhio, un uomo che appariva assai cupo in volto.
Morgante diede un colpo in terra con l'estremità del batacchio di una campana e disse: "Io non conosco costui" e si mise a sedere su di una pietra, finché questo gli arrivò davanti.
Morgante osservò attentamente, più e più volte, dalla testa ai piedi, il corpo dell'uomo che gli apparve strano, deforme e brutto, e disse: " Viaggiatore, dimmi il tuo nome". Egli rispose: "Il mio nome è Margutte, ed anch'io ebbi il desiderio di essere un gigante, ma poi mi pentii quando fui giunto a metà: vedi appunto che sono alto sette braccia.
Morgante disse: "Che tu sia il benvenuto: così io porterò legato al mio fianco un mezzo fiasco, visto che da due giorni a questa parte non ho bevuto; e, se diventerai il mio compagno di viaggio, io ti tratterò durante il cammino come si conviene. Ma continua a parlarmi di te: io non ti ho chiesto se tu sei cristiano o saraceno, e se tu credi in Gesù Cristo oppure in Apollo".
Allora Margutte rispose: "A dirla così su due piedi, bianco o nero non mi interessa, io credo nel cappone, sia lesso, sia, se preferisci, arrosto; e di tanto in tanto credo anche nel burro, nella birra, e quando ne ho, nel mosto; e credo assai più nelle monete d'argento che in quelle di rame; ma soprattutto ho fede nel buon vino, e credo che chi crede in esso trovi la salvezza.
Poi credo nella torta e nel tortino: la prima è la madre e il secondo è il suo figliolo; e i fegatelli rappresentano il vero Padre Nostro, perché essi possono essere tre, due e uno solo: infatti derivano tutti dal fegato. E dal momento che io lo vorrei bere con una cisterna, se Maometto vieta o proibisce il vino, io credo che egli sia una fantasia o un fantasma.
Ed Apollo deve essere un pazzo e Trivagante un'adunata di demoni. La fede è simile al solletico, credo che grazie alla tua intelligenza tu capisca ciò che voglio dire. Ora tu potresti dire che io sono un eretico: e affinché tu non sprechi il fiato, ti dico che la mia stirpe non è peggiorata con me e che io non sono un terreno su cui piantare una vigna.
La fede è quella che le persone portano con sé dalla nascita. Tu vorresti sapere che tipo di fede ho ereditato io? Io che sono nato da una monaca greca e da un sacerdote (musulmano), a Bursia, in Turchia. E all'inizio mi dilettai a suonare la chitarra, perché avevo voglia di cantare di Troia, di Ettore e di Achille, non solo una volta ma mille e mille volte.
Dopo che non mi piacque più suonare la chitarra cominciai a portare l'arco e la faretra. Poi, un giorno, che fui nella moschea, partecipai a un litigio e uccisi il mio vecchio padre sacerdote, mi posi al fianco questa spada e incominciai a vagare per il mondo; e come compagni portai con me tutti i peccati delle religioni del padre e della madre;
Anzi ne portai tanti quanti ce ne sono giù all'inferno: di peccati mortali, che non mi lasciano mai né d'estate né d'inverno, io ne ho settantasette; pensa poi a quanti ne ho di veniali! Non credo, anche se il mondo durasse in eterno, che sarebbe possibile commettere tanti mali quanti ne ho commessi solo io nella mia vita; e ogni genere dei peccati mi è chiaro come l'alfabeto.
Analisi
Le prime ottave del testo in esame svolgono un topos tipico della letteratura cavalleresca, ovvero, l'incontro occasionale fra due personaggi: Margutte e Morgante, i quali rappresentano un originale coppia cavaliere-scudiero, rispecchiando, così, anche se a un livello più basso, quella di Orlando e di Morgante. In questo binomio domina un rapporto di analogia e di complementarietà caricaturale.
Il racconto del credo di Margutte, sviluppato nella seconda parte del piano, introduce poi il tema dell'ambivalente sentimento religioso di Pulci, risultato personale dello sviluppo di una civiltà in cui il declino della religiosità tipica del Medioevo si fonda con la nascita dell'età umanistico-rinascimentale, caratterizzata da un nuovo rapporto fra l'uomo e Dio, fra immanente e trascendente.
Il "crocicchio" in cui avviene l'incontro con tra i due personaggi è un luogo privo di un atmosfera fiabesca, a differenza dai luoghi da cui proviene Margutte che sono dei luoghi tipici del poema cavalleresco. Il protagonista, inoltre, viene presentato in modo "carnevalesco", applicando quindi un rovesciamento delle forme: egli è un antieroe nel quale i caratteri delle virtù cavalleresche sono rovesciati.
In seguito, prima di proporgli di essere suo compagno, Morgante interroga Margutte sulla sua fede religiosa; anche in questo caso emerge il "carnevalesco", qui accostato al campo religioso e in particolare a una preghiera fondamentale per il cristianesimo, il Credo, di cui il personaggio conferisce una parafrasi dissacrante, esprimendo la propria indifferenza per ogni questione di fede e per ogni realtà metafisica. A ogni singola proposizione del Credo egli sostituisce un'enumerazione di specialità culinarie; l'insistenza sul cibo è espressa in fiorentino popolare e riconduce alla tradizione comica del Duecento e del Trecento, ispirandosi maggiormente a Cecco Angiolieri, in cui anche gli aspetti più sgradevoli del corpo vengono posti come tema centrale.
La profanazione supera i toni dissacranti per arrivare alla blasfemia; la concezione cristiana di Dio e della vergine Maria sono associati a una triade gastronomica dove la filiazione linguistica di "torta e tortello", legati dalla paronomasia, e di "fegatello" e "fegato", legati dal diminutivo allude all'associazione metafisica di Padre, Figlio e Spirito Santo. Pulci non risparmia nè "Macometto" né le altre due divinità che dovrebbero comporre l'ipotetica triade musulmana.
La confessione di Margutte è introdotta da numerosi suoni e dalla continua invenzione dei significanti che porta a una poetica del nonsense, simile a quella di frate Cipolla nel Decameron.
La confessione inizia con il racconto del parricidio, delitto due volte sacrilego, in quanto viola l'autorità e la norma, profanando inoltre il luogo sacro della "moschea".
Il tessuto delle rime è composto da ripetizioni foniche " turcasso : papasso : spasso" o "chitarra : sciarra : scimitarra", quasi a voler nascondere con questo frastuono di armi e di strumenti la voce che confessa l'empietà; Margutte, però, esibisce e quasi grida tutti i peccati commessi e rivendica orgogliosamente il proprio inarrivabile primato di scelleratezze.
Nel testo trattato possiamo notare varie figure retoriche: la metafora (ott. 114), nella quale Morgante paragona Margutte a un "fiachetto" che gli pende "allato", per indicare la bassa statura del compagno di viaggio; l'anafora con la quale Margutte elenca per polisindeto le varie specialità culinarie; l'adynaton (ott. 120) "se durasse il mondo in eterno".
Con lui Morgante compirà le più esilaranti e fantasiose avventure del poema.
Parafrasi
XVIII, ott. 112-120
Un giorno Morgante , dopo essere giunto ad un crocevia, all'uscita di una valle in un grande bosco, vide arrivare da lontano, con la coda dell'occhio, un uomo che appariva assai cupo in volto.
Morgante diede un colpo in terra con l'estremità del batacchio di una campana e disse: "Io non conosco costui" e si mise a sedere su di una pietra, finché questo gli arrivò davanti.
Morgante osservò attentamente, più e più volte, dalla testa ai piedi, il corpo dell'uomo che gli apparve strano, deforme e brutto, e disse: " Viaggiatore, dimmi il tuo nome". Egli rispose: "Il mio nome è Margutte, ed anch'io ebbi il desiderio di essere un gigante, ma poi mi pentii quando fui giunto a metà: vedi appunto che sono alto sette braccia.
Morgante disse: "Che tu sia il benvenuto: così io porterò legato al mio fianco un mezzo fiasco, visto che da due giorni a questa parte non ho bevuto; e, se diventerai il mio compagno di viaggio, io ti tratterò durante il cammino come si conviene. Ma continua a parlarmi di te: io non ti ho chiesto se tu sei cristiano o saraceno, e se tu credi in Gesù Cristo oppure in Apollo".
Allora Margutte rispose: "A dirla così su due piedi, bianco o nero non mi interessa, io credo nel cappone, sia lesso, sia, se preferisci, arrosto; e di tanto in tanto credo anche nel burro, nella birra, e quando ne ho, nel mosto; e credo assai più nelle monete d'argento che in quelle di rame; ma soprattutto ho fede nel buon vino, e credo che chi crede in esso trovi la salvezza.
Poi credo nella torta e nel tortino: la prima è la madre e il secondo è il suo figliolo; e i fegatelli rappresentano il vero Padre Nostro, perché essi possono essere tre, due e uno solo: infatti derivano tutti dal fegato. E dal momento che io lo vorrei bere con una cisterna, se Maometto vieta o proibisce il vino, io credo che egli sia una fantasia o un fantasma.
Ed Apollo deve essere un pazzo e Trivagante un'adunata di demoni. La fede è simile al solletico, credo che grazie alla tua intelligenza tu capisca ciò che voglio dire. Ora tu potresti dire che io sono un eretico: e affinché tu non sprechi il fiato, ti dico che la mia stirpe non è peggiorata con me e che io non sono un terreno su cui piantare una vigna.
La fede è quella che le persone portano con sé dalla nascita. Tu vorresti sapere che tipo di fede ho ereditato io? Io che sono nato da una monaca greca e da un sacerdote (musulmano), a Bursia, in Turchia. E all'inizio mi dilettai a suonare la chitarra, perché avevo voglia di cantare di Troia, di Ettore e di Achille, non solo una volta ma mille e mille volte.
Dopo che non mi piacque più suonare la chitarra cominciai a portare l'arco e la faretra. Poi, un giorno, che fui nella moschea, partecipai a un litigio e uccisi il mio vecchio padre sacerdote, mi posi al fianco questa spada e incominciai a vagare per il mondo; e come compagni portai con me tutti i peccati delle religioni del padre e della madre;
Anzi ne portai tanti quanti ce ne sono giù all'inferno: di peccati mortali, che non mi lasciano mai né d'estate né d'inverno, io ne ho settantasette; pensa poi a quanti ne ho di veniali! Non credo, anche se il mondo durasse in eterno, che sarebbe possibile commettere tanti mali quanti ne ho commessi solo io nella mia vita; e ogni genere dei peccati mi è chiaro come l'alfabeto.
Analisi
Le prime ottave del testo in esame svolgono un topos tipico della letteratura cavalleresca, ovvero, l'incontro occasionale fra due personaggi: Margutte e Morgante, i quali rappresentano un originale coppia cavaliere-scudiero, rispecchiando, così, anche se a un livello più basso, quella di Orlando e di Morgante. In questo binomio domina un rapporto di analogia e di complementarietà caricaturale.
Il racconto del credo di Margutte, sviluppato nella seconda parte del piano, introduce poi il tema dell'ambivalente sentimento religioso di Pulci, risultato personale dello sviluppo di una civiltà in cui il declino della religiosità tipica del Medioevo si fonda con la nascita dell'età umanistico-rinascimentale, caratterizzata da un nuovo rapporto fra l'uomo e Dio, fra immanente e trascendente.
Il "crocicchio" in cui avviene l'incontro con tra i due personaggi è un luogo privo di un atmosfera fiabesca, a differenza dai luoghi da cui proviene Margutte che sono dei luoghi tipici del poema cavalleresco. Il protagonista, inoltre, viene presentato in modo "carnevalesco", applicando quindi un rovesciamento delle forme: egli è un antieroe nel quale i caratteri delle virtù cavalleresche sono rovesciati.
In seguito, prima di proporgli di essere suo compagno, Morgante interroga Margutte sulla sua fede religiosa; anche in questo caso emerge il "carnevalesco", qui accostato al campo religioso e in particolare a una preghiera fondamentale per il cristianesimo, il Credo, di cui il personaggio conferisce una parafrasi dissacrante, esprimendo la propria indifferenza per ogni questione di fede e per ogni realtà metafisica. A ogni singola proposizione del Credo egli sostituisce un'enumerazione di specialità culinarie; l'insistenza sul cibo è espressa in fiorentino popolare e riconduce alla tradizione comica del Duecento e del Trecento, ispirandosi maggiormente a Cecco Angiolieri, in cui anche gli aspetti più sgradevoli del corpo vengono posti come tema centrale.
La profanazione supera i toni dissacranti per arrivare alla blasfemia; la concezione cristiana di Dio e della vergine Maria sono associati a una triade gastronomica dove la filiazione linguistica di "torta e tortello", legati dalla paronomasia, e di "fegatello" e "fegato", legati dal diminutivo allude all'associazione metafisica di Padre, Figlio e Spirito Santo. Pulci non risparmia nè "Macometto" né le altre due divinità che dovrebbero comporre l'ipotetica triade musulmana.
La confessione di Margutte è introdotta da numerosi suoni e dalla continua invenzione dei significanti che porta a una poetica del nonsense, simile a quella di frate Cipolla nel Decameron.
La confessione inizia con il racconto del parricidio, delitto due volte sacrilego, in quanto viola l'autorità e la norma, profanando inoltre il luogo sacro della "moschea".
Il tessuto delle rime è composto da ripetizioni foniche " turcasso : papasso : spasso" o "chitarra : sciarra : scimitarra", quasi a voler nascondere con questo frastuono di armi e di strumenti la voce che confessa l'empietà; Margutte, però, esibisce e quasi grida tutti i peccati commessi e rivendica orgogliosamente il proprio inarrivabile primato di scelleratezze.
Nel testo trattato possiamo notare varie figure retoriche: la metafora (ott. 114), nella quale Morgante paragona Margutte a un "fiachetto" che gli pende "allato", per indicare la bassa statura del compagno di viaggio; l'anafora con la quale Margutte elenca per polisindeto le varie specialità culinarie; l'adynaton (ott. 120) "se durasse il mondo in eterno".